Curatrice: Chiara Pietropaoli
Artista: Dem

C: I graffiti hanno costituito una parte importante del tuo percorso, per tanto tempo sei stato dentro alla crew OK, di cui hanno fatto parte alcuni artisti con i quali tutt’oggi collabori. Cosa ti porti dietro da questa esperienza?

A: Ho iniziato a dipingere graffiti nel ’90. Faccio parte di AKS, OK e ZOO; ora come ora l’unica crew ancora attiva, anche se meno rispetto a 10 anni fa, sono gli OK. Non ho fatto nessun liceo o scuola d’arte, con i graffiti ho imparato ad abbinare i colori, a combinare forme e soprattutto a dipingere su grandi superfici. Grazie a loro ho avuto modo di girare e vedere l’Italia e l’Europa, conoscere molte persone in gamba e fare mille esperienze diverse. Semplicemente, se non ci fossero stati i graffiti nella mia vita, non sarei neanche qui a fare questa intervista.

C: In Italia sei stato tra i primi che hanno cominciato a distaccarsi dalle lettere e a portare sui muri un linguaggio pittorico personale, assistendo in breve tempo all’esplosione e alla diffusione del fenomeno artistico, al centro di un dibattito aperto e complesso. Qual è il tuo punto di vista sulla situazione attuale, ma ancor prima come definiresti “la fase attuale”?

A: Direi “stagnante”. Forse ne ho visti troppi di lavori negli anni. Ora a parte pochi “vecchi” nomi che continuano una ricerca personale, trovo poche cose nuove e interessanti. Sui muri mi pare circolino più illustrazioni o sedicenti opere astratte che vera arte, tanta gente si è messa a fare le copie dei propri lavori smettendo di studiare e pochissimi approcciano luoghi, persone e architetture prima di intervenire. Ora come ora trovo più interessante la scena di train bombing (graffiti sui treni) del nord Italia. In primis perché rimane illegale, secondo perché dà tuttora fastidio alla gente comune. Quello che gira sulla gran parte dei muri è “l’addomesticamento decorativo di quella che era una forma di espressione libera” e il definitivo sdoganamento da parte dei comuni per quelle che chiamano riqualificazioni urbane, che sono solo operazioni di facciata, ha dato, a parer mio, il colpo finale.

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C: Alchimia e magia, esoterismo e spiritualità, la tua ricerca artistica (e antropologica) sembra nascere da un forte bisogno di comprendere le forze invisibili, che ti (ci) circondano, in un dialogo intimo con la natura. Mi racconti come questa necessità ha trovato nell’arte il veicolo primo?

A: Premessa che non sono un esperto né di esoterismo, né tantomeno di magia e alchimia. La mia è una ricerca di base antropologica su come l’uomo nel corso dei millenni abbia interagito con la Natura stessa, su come ci si è adattato per sopravvivere, anche spiritualmente. Al principio rimane il mio legame con la Natura, sulla sua conoscenza, sul suo potere, che mi sorprende sempre e su tutte le cose che mi ha insegnato osservandola dal vivo. Esprimendo me stesso con l’arte ho cercato di comunicare tutte queste meravigliose scoperte. Quelle che tu chiami forze invisibili per me sono solo i mille modi con cui le forze della Natura si mostrano a noi semplici (e negli ultimi secoli, stupidi) umani.

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C: Il tuo lavoro si caratterizza per la molteplicità di tecniche utilizzate e la peculiarità dei materiali scelti. Mi viene in mente la tua installazione “Micelio” (Pratizzano, RE), realizzata in un bosco, nella quale didascalia leggo: “legno di faggio e abete, cranio di pecora, capesante (Pecten Jacobaeus), ossa, mandibole di capriolo, lumache, fil di ferro”. Qual è l’intenzione che accomuna l’utilizzo di linguaggi e materiali così diversi tra loro?

A: Il linguaggio lo scelgo in base a quello che mi sembra il più consono per quello che voglio esprimere, e sono i luoghi stessi, soprattutto per le installazioni, che mi indirizzano verso un materiale o un altro. Fondamentale è il fatto di girare per i luoghi raccogliendo gli oggetti che casualmente incontro e utilizzarli poi in seguito, ho sempre un motivo valido che passa attraverso la ricerca sul campo o i vari studi che faccio prima. Per farti un esempio concreto, nell’installazione “Micelio”, tutto il materiale è stato trovato in loco, e quindi già, per me, appartiene al luogo. Ad eccezione delle conchiglie capesante che mi son portato da casa per due motivi: primo perché quell’installazione rimane sull’antica strada che collegava la pianura al mar ligure e mi piaceva che ci fosse anche un elemento marino che ricordasse questa cosa. Secondo perché mi ricordava una curiosa ritualità, che ho trovato sull’altare preistorico del Monte D’Accoddi in Sardegna, ossia portare centinaia di conchiglie dal mare in una zona collinare. Il motivo per cui lo facessero rimane tutt’oggi sconosciuto.

C: Tra le varie tecniche che padroneggi, alcune sono legate a tradizioni antiche, come il ricamo, tecnica a te cara, utilizzata in particolare per la creazione di maschere. Come nasce la tua predilezione per il ricamo? Quale significato hanno le tue maschere all’interno della tua poetica?

A: Sinceramente ho ripreso a ricamare solo negli ultimi tre anni, lo facevo più spesso quando ne avevo 15-16, è sempre stata una cosa che mi rilassa, diventa una specie di mantra. La maschera per me rappresenta i vari aspetti delle forze della Natura o l’apparizione-materializzazione esteriore della parte più profonda e archetipa dell’uomo. Le ho realizzate in legno scolpito, lana intrecciata, piume, licheni, tessuto, metallo battuto, cartapesta, veramente ogni tipologia di materiale naturale e non.

C: Da diversi anni sperimenti con il mezzo cinematografico. Nel 2013 realizzi il film “Supra Natura”, in collaborazione con Seth Morley, e in seguito i mediometraggi: “Liber Pater” (2013) e “Panta Rei” (2014), tutte opere caratterizzate da una forte componente teatrale. Come nascono e si sviluppano i tuoi progetti audiovisivi?

A: Anni fa avevo realizzato la mia prima maschera di legno partendo dalla base di un tronco di salice, non indossata, separata dal corpo, rimaneva un semplice pezzo di legno, dopo anni mi sono reso conto che il mezzo cinematografico, fosse il modo migliore per renderla viva. Per questo il film nasce dall’esigenza di rendere vive le maschere e ambientarle nei luoghi dove avevo trovato i materiali per costruirle ma anche di raccontare le ultime zone di natura semi incontaminata che mi circondano. Gli altri due nascono dalla lettura di libri e dalla ricerca di antiche credenze o riti che possono avere una valenza anche nel contemporaneo. Lo sviluppo avviene attraverso il confronto tra me e Claudio (Seth Morley), ognuno cerca di aggiungere spunti e idee e poi insieme si trova una soluzione a livello registico su come rendere al meglio queste “visioni”. I film nascono da un canovaccio di idea iniziale ma poi si sviluppano attraverso la messa in scena diretta lasciando anche spazio all’improvvisazione. Fondamentale, a livello musicale/sonoro, il binomio tra i suoni della Natura e le musiche di diversi amici, in primis Larva108, ma anche Comaneci, Aquarius Omega e Graziella Kriminal, sia con pezzi creati precedentemente che con altre composizioni fatte ad hoc.

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C: La tua mostra personale presso la Galleria Varsi: “Little Eternal Goddess”, indaga il culto della Magna Mater e le varie “forme” che ha assunto nel corso della storia. Che cosa rappresenta per te questa divinità? Come ti sei approcciato artisticamente alla Dea?

A: Per me è la Madre di ogni forma vivente sulla Terra, simboleggia l’amore, la forza più in generale, la fertilità ma anche la morte, è proprio una Dea dai molteplici aspetti. Tutto parte dal rapporto con la Natura, con il rendersi conto che nonostante la nostra società ci allontani da essa, rimaniamo sempre una sua parte. Rappresenta anche il riscoprire tutte quei luoghi naturali e i simboli, considerati sacri e legati a divinità femminili che hanno dominato la nostra spiritualità per migliaia di anni. Il mio approccio si è basato sullo studio di vari testi, la maggior parte della casa editrice Venexia, e nell’andare a rielaborare attraverso le immagini quanto avevo letto e che mi aveva affascinato.

C: Durante i preparativi della mostra mi hai spesso ripetuto: “chi entrerà in galleria dovrà provare a lasciarsi alle spalle la propria realtà e sforzarsi di entrare in contatto con quello che troverà, probabilmente lontano dall’esperienza comune”. Sembra quindi che le tue opere richiedano a chi guarda uno “sforzo”. Mi racconti meglio che tipo di relazione i tuoi lavori instaurano con lo spettatore, che cosa ti aspetti da questa relazione? Che significato ha portare dei simboli sacri in una galleria d’arte?

A: Di base questa mostra contiene tutta una serie di elementi simbolici e credenze ormai dimenticati dall’uomo contemporaneo o soppiantati dal cristianesimo, proprio per questo serve uno sforzo di riavvicinamento per riappropriarsi di questa simbologia. Mi piacerebbe che la gente riuscisse a lasciarsi andare liberamente e che si ponesse domande sull’origine di certe figure e sul perché questi archetipi rimangano tutt’oggi così forti nonostante siano antichissimi. Penso, e spero, che in un luogo d’arte, ci si senta più liberi di osservare, senza preconcetti e magari ci si sforzi di più a ricercare e a farsi domande.

C: La Magna Mater racchiude in sé concetti potenti e antichissimi. In che modo pensi che la sua logica possa trovare spazio oggi e quali aspetti della sua essenza credi sia prezioso, doveroso, conservare?

A: Partiamo da quello fondamentale e più “semplice”; ritornare verso la Natura ricordandoci di essere parte di essa, che ogni cosa nell’universo è collegata, che non siamo qui per dominarla o tenerla sotto controllo; dovremmo rispettare ogni forma di vita e prendercene cura. Inoltre dobbiamo ricordarci che la nostra tradizione più recente ha messo in secondo piano il principio femminile della Terra distaccandoci dal suo valore sacro e questo fa si che si crei un disequilibrio tra maschile e femminile anche all’interno della nostra società. Bisogna riprendere consapevolezza, riscoprendo il valore sacrale della Natura.

 

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