Colera group-show
Curatrice: Chiara Pietropaoli
Artista: Run, Canemorto, Borondo, Servadio
Dal 25 Marzo al 23 Aprile 2017
C: “Colera” è un progetto che ha le sue radici nel 2105 quando vi siete ritrovati, per caso, a Londra tutti nello stesso periodo. Ci raccontate l’esperienza londinese e lo sviluppo del progetto nella Galleria Varsi?
R: Non ci siamo trovati per caso, è stato un segnale di Dio e, credendo al segnale, i miracoli sono cominciati ad accadere.
C: L’esperienza ha preso vita nello studio di Servadio ad Hackney Wick, dove ci trovavamo regolarmente per ripararci dal maltempo inglese.
La spontaneità e l’improvvisazione erano alla base di queste lunghe sessioni di stampa, in cui l’unico obiettivo era divertirsi e contaminarsi a vicenda. A ogni sessione si aggiungevano amici, altri artisti o chiunque volesse fermarsi a far ballotta; l’unica richiesta era quella di stampare qualcosa e di appenderlo alle pareti. Solo verso la fine del soggiorno londinese si incominciò a pensare di mettere in mostra il prodotto di queste psichedeliche nottate. Il progetto da Varsi è nato come una rievocazione di questa esperienza, con la sfida di svilupparlo in un contesto totalmente diverso rispetto a quello di tre anni fa.
B: È stato abbastanza naturale e organico come processo. Michele ha un torchio, ci piace sperimentare, proviamo un giorno e ci piace, tante birre.., e poi decidiamo che un giorno a settimana lo dedichiamo a questa ricerca.
S: “Colera” è la giusta definizione per descrivere lo stato del mio studio dopo le sessioni di stampa intraprese dal gruppo; l’inchiostro a base olio, viscoso, lasciava traccia del suo passaggio sopra ogni superficie, no guanti durante l esecuzione, una rotazione di stampa giocosa, di confronto tra noi, tutti a sperimentare una nuova tecnica.
Le sessioni di stampa sono state molte, il cuore del gruppo noi presenti alla Galleria Varsi, più un’orbita di persone satelliti che partecipavano alle serate, artisti o meno, se si era presenti era d’obbligo stampare. Abbiamo prodotto una quantità di lavoro incredibile che andava a depositarsi sopra ogni superficie dello studio, come se avesse nevicato fogli. Da questo deriva anche la scelta di coprire interamente la superficie della galleria.
C: Quali delle possibilità che la tecnica del monotipo offre vi affascinano e in che modo dialogano con la vostra poetica e il vostro linguaggio?
S: Sicuramente l’aleatorietà della tecnica e la velocità di esecuzione sono caratteri coinvolgenti. È sempre una sorpresa quando si solleva il foglio dalla lastra. È come creare una ricetta veloce, buttarla sul piatto e assaggiarne il sapore. Pochi elementi, gesti, materiali, calcolati a spanne. Qualsiasi oggetto o pezzo di esso può potenzialmente essere un tool perfetto per creare texture inedite, questo ti porta a tenere gli occhi aperti, è uno stimolo continuo. Il monotipo non è sicuramente una tecnica noiosa, è una tecnica empirica che si aggiusta e complica ogni volta che si introduce una nuova variante.
La texture è una parte fondamentale del mio lavoro, nel tatuaggio come nella stampa è la pelle del lavoro, il suo sapore. Non sono poi un grande pianificatore quindi la spontaneità del monotipo serve a trovare idee fresche, che poi posso riutilizzare in altri ambiti come la pittura o il tatuaggio. Il monotipo per me è il media perfetto per alimentare il feedback creativo tra i vari media della mia pratica artistica.
R: Il bello del monotipo è che ti fa vedere il limite. Al contrario di quanto siamo portati a credere, non sempre è possibile controllare le cose che accadono nella nostra vita.
B: Mi interessa il fatto del caso, della aleatorietà che va al di là del controllo della mano dell’artista. Quello che può essere inteso come “sbaglio” può invece portare a trovate… lavorare con la sorpresa è sempre molto stimolante, anche se a volte può diventare pure frustrante. Siamo abituati per natura a controllare tutto, invece nel monotipo c’e un processo di accettazione dei limiti e della nostra condizione contingente.
Mi piace l’idea di mettermi in gioco su una tecnica che non conosco bene e che non so dove mi porterà. La cosa più interessante da fare quando si cammina in un luogo sconosciuto, in campagna, è uscire dalla strada già percorsa e imparare a convivere con l’insicurezza dovuta alla mancanza di controllo su quello che abbiamo intorno, con l’incertezza di non conoscere la via di uscita.
C: Il monotipo è una tecnica immediata e istintiva, che permette di lavorare con freschezza e senza esitazioni. Queste caratteristiche si adattano perfettamente al nostro linguaggio e si prestano molto bene a un progetto collettivo di questo genere.
C: Quali sono le zone di contatto che sentite avere con gli altri artisti del team?
B: Dal mio punto di vista, più che una connessione estetica esiste una sorta di intendimento nell’atteggiamento che tutti quanti noi abbiamo nel modo di vivere la nostra esistenza, un modo indipendente, intenso e libero… e poi tanta amicizia.
R: Ci piace a tutti la ketamina e gli spaghetti al pomodoro. Scherzo, siamo legati da un’amicizia reciproca che forse è nata proprio sopra una pressa. Siamo colleghi e condividiamo un mondo giostrandocelo ognuno a modo proprio. Credo ci inspiriamo anche a vicenda, come delle spugne che stanno dentro un cassetto. Con la mostra apriremo questo cassetto per vedere cosa c’è dentro.
C: Oltre al rapporto di amicizia che ci lega, il lavoro di tutti noi indaga la figura umana tramite la ricerca di un segno molto personale. Quello che ci accomuna veramente, più che un’estetica, è un’attitudine a mescolare linguaggi e medium differenti, spaziando tra disegno, pittura, scultura, installazioni, video, musica, tatuaggi…
S: L’organicità dei soggetti, corpi per esempio. Nascono crudissimi con i Canemorto, si aggiustano un po’ le forme con me e diventano perfetti con Gonzalo, plastici con Giacomo, per poi distruggersi di nuovo con la CM; è un circolo.
C: Ci avete messo un bel po’ a scegliere il titolo della mostra. Dopo infiniti (e folli!) scambi di e-mail siete tornati alle origini e avete scelto “Colera”. Perché questa parola?
B: Perché era quella che ci piaceva a tutti quanti e perché a volte tornare sui propri passi è il modo giusto di andare verso il futuro.
S: Per me riflette bene la vibe delle sessioni di stampa londinesi ed è un po’ ironica ma non troppo, quindi mi piace. Abbiamo dovuto provarle tutte per capire che era quella giusta. Oltre alle difficoltà tecniche di comunicazione via mail ci abbiamo messo un bel po’ perché si tratta di un progetto spontaneo che non ha necessariamente bisogno di un nome, a differenza di un progetto organizzato a priori, nel quale c’è un concetto accostato a un titolo e successivamente arrivano i lavori. In questo caso ci siamo ritrovati a dover dare un nome a qualcosa che esisteva già.
C: Come un’infezione di colera, la fissazione dei monotipi ha contagiato tutti noi, causando una produzione profusa e incontrollata di stampe nere, sporche e appiccicose.
R: Perché questa parola? “Colera” non ha senso! io avevo proposto almeno cento nomi meglio di “Colera”!!! “Colera” perché è un nome tetro di morte che piace ai Canemorto. Un nome “not cool” but “cool”, dark. L’unica cosa che mi piace è che mi fra venire in mente che quando caschi per terra esamine per il colera hai le dita nere. Ma va bene, “Colera” va bene.
C: Oltre alla tecnica, filo conduttore delle opere, ci sarà un legame tematico tra i lavori in mostra o lavorerete liberi, senza vincoli?
C: Non abbiamo nessun vincolo, ognuno partirà con le sue tematiche, probabilmente nel corso del progetto si contamineranno e daranno origine a nuove tematiche.
S: La tematica dei lavori sarà determinata dall’unione e sovrapposizione delle tematiche di ogni singolo individuo. Proprio perché eseguiremo i lavori in galleria, tutti assieme, l’uno “sopra” l’altro, inevitabilmente ci influenzeremo a vicenda e il corpo di lavoro finale sarà il risultato dell’equazione di tutti noi. Noi siamo gli ingredienti, la galleria il pentolone. Bolliamo per due settimane e vediamo cosa ne esce. (Ho fame scusa ho fatto riferimento al cibo ahaha)
R: Io so che ci sarà un sacco di improvvisazione e bellezza in quello che faremo. Il bello di questa mostra è che la produzione sarà estemporanea. Si deciderà tutto nel campo di gioco.
B: Penso che non lo sapremo fino a che non ci metteremo a lavorare e inizieremo a stabilire un contatto tra di noi. Non siamo gente abituata a lavorare a distanza e ci piace molto essere presenti in quello che facciamo. Sono passati tre anni dall’ultima volta che abbiamo lavorato insieme e tante cose sono cambiate per noi, sia a livello artistico che personale. Ci servirà un po’ di tempo per abituarci e confrontarci sulla ricerca che ognuno di noi sta portando avanti in questo momento, poi da li sarà più facile capire come stabilire un dialogo tra le opere.
C: Come riusciremo a non impazzire con voi sei in galleria per due settimane h24?
C: La vostra unica possibilità di salvezza è cominciare a stampare con noi.
B: invece spero proprio di farvi impazzire… hahahah. Basta che non passate troppo spesso.
R: State calmi e fateci suonare. Noi cuciniamo voi vendete.
S: Sono spaventato per me stesso ahahah