Curatrice: Chiara Pietropaoli
Artista: Nicolas Romero (Ever)
Esibizione dal 16 Giugno al 13 Luglio 2017

Curatrice: Il tuo percorso artistico inizia negli anni ’90, per le strade di Buenos Aires, con i graffiti, cosa ti ha portato a superare le lettere a favore della pittura figurativa? Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto, allora come oggi, ad esprimerti nello spazio pubblico?

Artista: I graffiti sono arrivati in un momento particolare della mia adolescenza e mi hanno aiutato a riconnettermi con l’arte, cosa che avevo represso dopo la morte di mio padre. Da piccolo mi avevano dato vari libri d’arte su pittori come Van Gogh, Goya o Velasquez. Poi a 13 anni, mia madre mi ha mandato a corsi di pittura dove ho imparato diverse tecniche (olio, acrilici e acquerelli), ma in quel momento avevo difficoltà a gestire tutte le incertezze che vivevo, dal sesso a Dio.

I graffiti mi hanno aiutato a sfondare quelle ansie. Il sentire che uno spazio pubblico poteva appartenermi anche per un breve periodo, mi dava un senso di potere, un potere invisibile. Il lettering era un esercizio interessante, ma quando finivo di lavorarci mi sentivo sempre incompleto. Adesso penso di non essere stato molto forte come writer.

Quièreme - Nicolas Romero (Ever) solo-show

Poi per amore (che rimane sempre la motivazione più interessante dell’essere umano perché quando si fa qualcosa per amore non ci si aspetta nulla in cambio), mi sono ritrovato a dipingere un volto. In quel momento per la prima volta nella mia vita ho sentito qualcosa crescere in me; ho iniziato a riconnettermi con la mia infanzia, con i libri che mi avevano dato i miei genitori.

Quello che ancora richiama la mia attenzione in uno spazio pubblico è il fatto che non posso mai controllarlo. Gli spazi pubblici sono luoghi molto particolari, politicamente critici, soprattutto in America Latina dove tutto è sempre a rischio di esplosione e dove c’è estrema libertà solo per il fatto che la polizia è impegnata in altre faccende più importanti. È uno spazio in cui le teorie non funzionano, uno spazio che non appartiene a noi, anche se lo percepiamo come tale.

Curatrice: Nel tempo (relativamente poco) la pratica artistica illegale di dipingere sulle superfici murali pubbliche si è trasformata in pratica autorizzata e istituzionale. Pensi si sia perso qualcosa di prezioso in questo passaggio? La carica sovversiva di questa modalità di fare arte risiedeva proprio nel fattore illegalità oppure può individuarsi in altri aspetti?

Artista: Penso che l’Arte Urbana sia un movimento partito da un prodotto del capitalismo: la bomboletta è nata come uno strumento creato per dipingere velocemente in aree complicate. A un certo punto lo spray ha generato una rottura e ha iniziato a essere utilizzato per altri motivi; ma poi è ritornato ad appartenere al sistema. Questo è quanto è accaduto all’Arte Urbana, una purificazione che ha coinciso con quella che è stata chiamata “Street Art”, cioè una raffinazione dei graffiti.

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La Street Art è il cosmetico usato nel processo di gentrificazione. Io credo che possa sopravvivere solo se ci rendiamo conto che si può utilizzarla senza esserne usati. Un artista che opera in uno spazio pubblico soffre di una malattia definibile come “idealismo esposto”, poiché si apre al giudizio di sconosciuti. Questo movimento sarà in grado di sopravvivere solo se nessuno controllerà l’essenza dell’artista. L’Arte Urbana non cambia il mondo, ma può modificare il modo in cui le persone percepiscono le cose; per me gli individui sono gli unici che alla fine possono cambiare tutto.

Curatrice: Tempo fa a una persona che ti chiedeva: “Cosa succederebbe se un giorno i muri delle città fossero tutti dipinti?”, hai risposto che tu avresti iniziato a pitturarli di bianco. Mi racconti cosa rappresenta per te questa metafora?

Artista: Quando ero più giovane ho sempre pensato che il mio sogno fosse vedere un intero quartiere dipinto. Poi quando il mio sogno si è avverato, mi sono spaventato e ho cambiato idea. Un intervento in uno spazio pubblico deve essere critico e spingere a guardare le cose in un modo diverso, quindi adesso ho paura all’idea di vedere tutto dipinto.

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Curatrice: La tua ricerca artistica si caratterizza per un forte aspetto critico della realtà attuale, una critica intelligente che spesso parte dalle teorie politiche e filosofiche del passato, rielaborate in riflessioni personali. Quali avvenimenti e personalità hanno contribuito a formare la tua poetica? Pensi che l’arte oggi possa (o debba?) davvero avere un ruolo attivo nella costruzione di pensiero delle persone?

Artista: Credo di aver cambiato il mio modo di dialogare con l’arte a Parigi nel 2009, quando ho capito che tutto era politico e che la strada era lo spazio più democratico e anarchico che c’era. Sono cresciuto con la politica; i miei genitori erano giovani combattenti comunisti in un’epoca dove in Argentina chi aveva opinioni contrastanti poteva scomparire nel nulla per sempre. Mi sono reso conto che se l’arte non dialoga con il contesto in cui opera, può morire nel proprio idealismo. Un’opera d’arte è solo un ponte che genera la discussione che seguirà. Un’opera non deve “dire” qualcosa, ma deve porre delle domande. Non mi ero orientato verso la politica, ma appena mi ci sono aperto la politica mi ha trovato.

L’arte è il modo per dialogare con se stessi e anche per entrare in contatto reale con gli altri. Arte è credere che siamo potenti. Arte è credere che abbiamo vinto una battaglia che forse è già stata persa.

Curatrice: Ricordo che in una delle prime mail che ci siamo scambiati mi hai scritto che per la tua mostra personale presso la Galleria Varsi volevi “parlare di Dio in una maniera soggettiva”. Qual è la tua visione della spiritualità?

Artista: La mia opinione sulla religione è forse un po’ perversa. I miei genitori non si sono sposati in chiesa e quindi non sono mai stato battezzato. Comunque Dio mi è sempre sembrato un personaggio strano ed ero abituato a giustificare tutto quello che mi accadeva come una decisione presa da un’entità più potente di me: se una ragazza non mi baciava o cadevo dalla moto, la cosa avveniva per decisione divina. Poi quando è morto mio padre ho cambiato idea; provavo troppo dolore e non capivo perché potevano succedere queste cose. Non trovando una risposta migliore in Dio, ho finito per arrabbiarmi e ho smesso di pensare che Dio potesse intervenire nella mia vita. Ora lo penso piuttosto come un uccello, un albero, un orgasmo, un leone o qualcosa che non ha nulla a che fare con gli esseri umani. È l’universo stesso con i suoi pianeti e le sue lune, un ologramma che non possiamo vedere.

Penso sia giusto credere in qualcosa perché è ciò che ci fa guardare oltre, ma non credo che possiamo ottenere nulla dalla promessa di paradisi d’oro. Forse la “fede” è la diretta conseguenza dell’avere paura dei nostri atti.

Curatrice: Poi un giorno mi hai scritto che nello specifico ti interessava indagare il rapporto tra Chiesa Cattolica e sesso, ti interessava farlo proprio a Roma e che tutta la mostra avrebbe girato intorno al concetto di “Transverberazione”, un’estasi mistica di tipo cristiano. Cosa ti ha colpito di questa forma di estasi e in che modo per te ha a che fare con la sessualità? Più in generale, quali aspetti della relazione che intercorre tra sesso, Chiesa e aggiungerei individui, ti interessa mettere il luce in mostra?

Artista: Tutto è iniziato quando ero piccolo e il mio unico contatto con la Chiesa era andare a giocare a calcio nei loro campi. Dopo le feste si doveva ascoltare la predica del sacerdote. Una volta durante una di queste prediche ho trovato una rivista porno; quando l’ho vista, ho provato una colpa immensa e ho avuto la sensazione che mi sarebbe accaduto qualcosa di brutto. Quella rivista rappresentava la contraddizione di due spazi che non potevano stare tecnicamente insieme e quella situazione ha generato in me una strana eccitazione (col senno di poi penso che sia stata la rivista stessa a turbarmi in quel modo…).

Tutto è iniziato quando ho scoperto che la parola “estasi” veniva usata dal Cattolicesimo. Mi colpisce che una parola così legata alla lussuria, al sesso e alle droghe sia stata usata sotto il nome di Dio. Quella parola è stata la chiave per andare verso qualcosa di molto più interessante che è fondamentalmente il contatto più puro e divino che si possa avere con Dio, dove la divinità entra nel corpo di una persona, lo occupa e genera il piacere più sorprendente che esiste. Bernini rende magnificamente questo concetto nell’orgasmo dell'”Estasi di Santa Teresa”. Personalmente credo che se Dio è ovunque, deve esserci allora anche quando facciamo sesso e se la Chiesa smettesse di reprimere continuamente l’individuo, si ridurrebbero i casi di abusi sessuali.

Cerco di umanizzare Dio, di credere che sia anche curioso, e penso anche che credere in Dio equivalga alla sensazione di essere amati anche se commettiamo degli errori, e di non essere soli. La Transverberazione ha risolto i miei sentimenti di colpa d’infanzia verso quella rivista.

Curatrice: Astratto e figurativo dialogano nelle tue opere. Il più delle volte è proprio dagli occhi delle figure che le forme astratte prendono vita, annullandone la visione, ma non solo; anche nelle opere presenti in mostra fasce di colore convivono con i personaggi e proprio in esse sembra risiedere la carica simbolica delle opere. Cosa simboleggiano le forme e i colori forti che pervadono i soggetti?

Artista: Le forme astratte sono quanto rimane dopo una sbornia di graffiti. Sono i miei pensieri immediati e la prima cosa che per me descrive il “qui e ora”. Sono la forma che do a Dio. Un giorno potrebbero diventare me stesso che vuole essere da qualche altra parte. Sono il mio alter ego. Potrebbero essere anche voi mentre state leggendo questa intervista.

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